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La trasmissione del virus dell'epatite C durante la gravidanza e terapie nell'età pediatrica

La trasmissione del virus dell'epatite C durante la gravidanza e terapie nell’età pediatrica

Intervista con il dottor Giuseppe Indolfi
AOU Meyer, Firenze
Pediatria Medica, Epatologia Pediatrica
Viale Pieraccini 24, 50139, Firenze, Italia
g.indolfi@meyer.it
055 5662488


Dott. Indolfi ci può dire dove esercita e che ruolo ricopre?
Sono Dirigente Medico Pediatra presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Meyer di Firenze. Lavoro presso il reparto di Pediatria Internistica e in Epatologia Pediatrica.

Il neonato corre qualche rischio se la persona affetta da epatite C è il padre? In sostanza il liquido seminale può trasmettere l'infezione al feto?
Il virus dell’epatite C, come è noto, si trasmette attraverso il contatto con sangue infetto. Abbiamo recentemente dimostrato in un gruppo di bambini italiani che se il padre ha l’epatite C cronica il nascituro ha un maggior rischio di contrarre l’infezione solo se anche la madre è infetta. Questi dati confermano che il rischio di trasmissione intrafamiliare da padre a figlio in paesi come l’Italia è bassissimo e addirittura trascurabile.

Quale rischio personale corre una donna affetta da epatite C che vuole affrontare una gravidanza? In altre parole può rischiare un aggravamento dell'epatite?
In una donna con epatite cronica da virus C in buon compenso funzionale, senza concomitanti malattie di rilievo o complicanze ostetriche, la gravidanza non costituisce un rischio di aggravamento della malattia di fegato.

Quanti e quali sono invece i rischi di infettare il neonato se la madre è affetta da epatite C?
Globalmente il rischio di trasmissione dell'infezione da madre con epatite C al proprio figlio è attorno al 6%. I fattori di rischio più importanti sono:

1. la viremia materna, ovvero la presenza nel sangue circolante del genoma virale (HCV RNA), dimostrabile e quantificabile nel siero con metodiche molto sensibili come la polymerase chain reaction (PCR). Se non c'è evidenza di viremia nel siero materno durante la gravidanza (HCV RNA assente = PCR negativa) il rischio di trasmissione dell'infezione al neonato è molto basso (0.3%). La presenza di viremia (HCV RNA presente = PCR positiva) comporta un rischio di trasmissione di circa il 6% (1 bambino infetto ogni 20 nati). Alcuni studi supportano l’ipotesi che quanto più sia elevata la viremia tanto maggiore sia il rischio di trasmissione, ma ancora non è possibile né quantificare il rischio né validare in modo assoluto questa associazione. È importante notare che l'infezione può essere trasmessa anche se la concentrazione di virus circolante è bassa. 

2. la tossicodipendenza materna, attiva o pregressa aumenta il rischio di trasmissione; sembra che questo sia dovuto al fatto che i linfociti di queste mamme sono spesso infettati e potrebbero fungere da serbatoio del virus. 

3. la coinfezione materna con virus C e virus dell'AIDS (HIV) è sempre stata associata a un maggior rischio di trasmissione del virus C, sia per l'immunodepressione indotta dall'HIV, sia perché la mamma HIV positiva è spesso anche tossicodipendente. Globalmente il rischio di trasmissione da madre coinfetta HCV-HIV è circa 10% (1 bambino infetto ogni 10 nati).

Quali sono i fattori di rischio da tenere in considerazione per una donna affetta da epatite C che desidera avere un figlio?
Oltre ai fattori di rischio già considerati, nella precedente risposta (viremia presente, alti livelli di viremia, tossicodipendenza e coinfezione con HIV) molti altri sono stati esaminati (genotipo virale, livelli di transaminasi, trasmissione dell'infezione già verificatasi in una precedente gravidanza, parto vaginale rispetto al cesareo in elezione) senza che si sia potuta trovare conferma della loro importanza. È importante notare che sebbene sia ragionevole pensare che tutte le manovre ostetriche che favoriscono il contatto del sangue materno con quello del neonato possano teoricamente aumentare il rischio di trasmissione, non esistono evidenze certe che giustifichino particolari precauzioni al momento del parto.

E' possibile azzerare i rischi di contagio?
Non è possibile per ora azzerare il rischio di contagio, anche se la probabilità che una madre senza evidenza di virus in circolo (PCR negativa) infetti il figlio è prossima allo zero.

In quale momento avviene il contagio? Durante il parto oppure già in fase intrauterina? 
L'infezione viene trasmessa nella grande maggioranza (circa il 70%) dei casi al parto, quando è maggiore il rischio di commistione tra sangue materno e fetale. È possibile tuttavia anche la trasmissione intrauterina testimoniata dalla positività di HCV RNA in alcuni neonati già alla nascita.

Parliamo di allattamento: è possibile allattare per una madre con infezione da virus dell'epatite C? Quali sono i rischi e quali le precauzioni da prendere?
L'allattamento al seno è consigliato, dal momento che nessuno studio ha dimostrato che esso aumenti il rischio di trasmissione. Il latte materno ha note proprietà antivirali. L’unica precauzione consigliabile sarà comunque evitare transitoriamente l’allattamento al seno in caso di capezzoli con ragadi e vistosamente sanguinanti.

Quali esami vanno fatti al neonato e per quanto tempo per essere certi che il contagio sia stato scongiurato?
Le indicazioni pratiche per lo screening dei bambini nati da madre con infezione da virus dell’epatite C sono le seguenti:

• Se la madre è positiva per gli anticorpi anti-HCV ma HCV RNA negativa (PCR negativa) durante la gravidanza è sufficiente sottoporre il bambino ad un semplice test sierologico per ricerca degli anticorpi anti-HCV a 18 mesi. Se a quell'epoca il test è positivo significa che vi è stata infezione, dal momento che gli anticorpi acquisiti passivamente dalla madre alla nascita scompaiono entro questo lasso di tempo. In caso di positività si procede ad eseguire la PCR per valutare la viremia e le transaminasi per valutare l'eventuale malattia epatica. 

• Se la madre è HCV RNA positiva in gravidanza si esegue una valutazione delle transaminasi e della viremia del bambino al terzo mese di vita. Se il bimbo risulta viremico (PCR positivo) o comunque ha transaminasi alterate, è necessaria una presa in carico specialistica per iniziare l’opportuno follow up. Se al terzo mese di vita il bimbo non è viremico (PCR negativo) e le transaminasi sono normali sarà sufficiente eseguire un prelievo per ricercare gli anticorpi anti-HCV a 18 mesi di vita, come precedentemente indicato.

Il bambino cui viene riscontrata l’infezione andrà seguito regolarmente dato che l'infezione stessa tende a cronicizzare in circa l’80% dei casi.

Ammesso che il neonato si contagi con il virus, quali prospettive terapeutiche ha un bambino affetto da epatite C e a quali problemi di salute andrà incontro durante l'adolescenza? 
La malattia di fegato che si associa all'infezione da virus C durante tutta l'età pediatrica è di solito modesta se confrontata con quella dell’adulto. L’infezione non determina abitualmente la comparsa di sintomi e non interferisce con lo sviluppo psicofisico. Tuttavia l’epatite C in età pediatrica non tende alla guarigione spontanea. È stato dimostrato che la progressione del danno epatico sia correlata alla durata della malattia e all’età del paziente (quanto più lunga sarà la durata della malattia e quanto più grande sarà il paziente tanto maggiore sarà il danno accumulato a livello del fegato). Per tale motivo, la persistenza del danno epatico indotto dal virus per molti anni può indurre una fibrosi più o meno grave nell'età adulta. Esistono rare eccezioni in cui una malattia persistentemente e particolarmente attiva può sfociare in cirrosi già in età pediatrica (<2% dei casi). 

Attualmente l’unica terapia disponibile per i bambini con età superiore a 3 anni e con infezione cronica da virus dell’epatite C è la combinazione di interferone pegilato alfa e ribavirina. La terapia, analogamente a quanto già successo per gli adulti, dura 48 settimane per le infezioni da genotipo virale 1 e 4 e 24 settimane per le infezioni da genotipo virale 2 e 3. L’efficacia e la sicurezza della terapia in età pediatrica sono migliori rispetto all’adulto. I bambino tollerano meglio (quindi con minori effetti collaterali) la terapia che è efficace in circa il 50% delle infezioni da genotipo 1 e 4 e 90% di quelle da genotipo 2 e 3.
Sono da poco cominciati anche in alcuni centri italiani le prime sperimentazioni pediatriche dei nuovi farmaci antivirali ad azione diretta. Sulla scia di quanto già visto per gli adulti, le aspettative per tali sperimentazioni sono alte. Questi farmaci sono facili da somministrare assumendosi interamente per via orale, hanno scarsi effetti collaterali e un’elevata efficacia indipendentemente dal genotipo virale e dallo stadio di malattia. I tempi per il completamento di queste sperimentazioni e la messa in commercio anche per l’età pediatrica dei nuovi farmaci non è prevedibile, ma verosimilmente saranno necessari ancora alcuni anni.

Quale consiglio si sente di dare a tutte quelle donne che sono affette da epatite C e sono indecise sulla gravidanza?
Ad una donna anti-HCV positiva che desidera un figlio suggerisco di rivolgersi a un centro competente per un’accurata messa a punto della situazione epatologica con valutazione dei fattori di rischio sopra menzionati. Se la donna è negativa per HCV RNA nel siero il rischio di trasmissione, come già detto, è minimo. Se viceversa è HCV RNA positiva e vi sono le condizioni idonee a un trattamento, deve essere valutata la possibilità di iniziare la terapia con inibitori virali ad azione diretta. La negativizzazione della PCR HCV è la miglior garanzia di non trasmettere l’infezione al bambino. Qualora la terapia fosse controindicata, rifiutata o inefficace, sarà comunque opportuno un colloquio esaustivo con lo specialista e il medico di fiducia.

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