Epatite C e crioglobulinemia
L’accesso ai farmaci innovativi per i pazienti con epatite C e crioglobulinemia
Intervista con la Prof.ssa Anna Linda Zignego
Direttore Centro Interdipartimentale di Epatologia MaSVE
Università di Firenze, AOU Careggi Largo Brambilla, 3
50134 - Firenze - ITALY
Tel: +39 055 2758086
La rilevanza clinica dell’infezione da virus dell’epatite C non è semplicemente legata alla dimensione epidemiologica che essa riveste nei paesi occidentali, ma anche alla varietà e complessità delle sue manifestazioni cliniche. A seguito dello sviluppo di metodiche di diagnosi sierologica per l’HCV a partire dall’inizio degli anni Novanta, l’elenco delle patologie extraepatiche correlate all’infezione HCV si è andato sempre più allungando, per comprendere alcune associazioni di comprovata evidenza clinico-epidemiologica ed altre di carattere semplicemente speculativo (tabella 1).
In questo articolo cercheremo di approfondire la sindrome crioglobulinemica e quali caratteristiche devono essere presenti nel paziente per avere accesso ai nuovi farmaci antivirali.
Ne parliamo con la Prof.ssa Anna Linda Zignego, uno dei massimi esperti di crioglobulinemie e manifestazione extra epatiche in Italia.
Prof.ssa Zignego di cosa si occupa esattamente e dove lavora?
Sono Docente di Medicina Interna presso l’Università degli Studi di Firenze ed opero nella stessa città, presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica. Il mio precipuo interesse è sempre stato rappresentato dall’Epatologia ed in particolare dalle patologie dovute ai virus epatitici che, ancora oggi, rappresentano il capitolo maggiore del nostro settore. Come internista, la mia attenzione, come quella dei miei collaboratori, si è sempre estesa oltre il fegato, cercando di abbracciare a 360 gradi tutte le patologie non solo epatiche, ma anche extraepatiche indotte dall’infezione da parte di questi diffusissimi virus. Questo ha condizionato la definizione del Centro Interdipartimentale di Epatologia MASVE (letteralmente Manifestazioni Sistemiche da Virus Epatitici) che dirigo attualmente in Firenze e che accoglie, in numero sempre crescente, pazienti provenienti dalla nostra e da altre regioni.
Ci può spiegare cosa sono le manifestazioni extraepatiche e quando si manifestano nel paziente con epatite C?
Il virus C è stato determinato a seguito di lunghi studi per l’identificazione dell’agente causale di quella che allora era chiamata epatite “nonA-nonB” per esclusione. Per questo è stato chiamato “virus dell’epatite”, ma in realtà il virus C può infettare altri tipi di cellule oltre quelle del fegato ed in particolare cellule del sistema linfatico e può dar luogo non solo a patologie epatiche, ma anche extraepatiche (Figura 1).
Figura 1: Il virus dell’epatite C può infettare non solo cellule epatiche, ma anche linfatiche e dar luogo a patologie sia epatiche che linfatiche
In un primo tempo alcune associazioni sono state determinate o sospettate grazie a osservazioni che suggerivano che l’infezione e talune forme morbose fossero correlate. Al primo posto fra queste alcune patologie linfatiche ed in particolare la Crioglobulinemia Mista (CM) prima detta essenziale (cioè da cause non note) e talune forme di linfoma, ma anche patologie autoimmuni della tiroide, patologie cutanee come la porfiria cutanea tarda o il lichen planus, patologie renali o articolari non legate alla CM e molte altre con gradi diversi di prove scientifiche disponibili (vedi tabella 1 e Figura 2).
Più recentemente, con la disponibilità di ampi database includenti migliaia di pazienti con e senza infezione HCV seguiti per oltre 10 anni, è stato possibile ottenere interessanti dati anche grazie all’analisi delle cause di morte. Si è visto infatti che la mortalità era significativamente maggiore nel soggetti infettati rispetto ai controlli e che ciò non era solo dovuto a patologie del fegato, ma anche ad una serie di patologie extraepatiche includenti talune per le quali l’associazione col virus era stata precedentemente ipotizzata, quali patologie cardiovascolari a partire dall’aterosclerosi, patologie metaboliche quali il diabete e tumorali diverse dal tumore del fegato ed il linfoma.
Figura 2: lo spettro delle manifestazioni extraepatiche dell’HCV
Una prova molto importante di tali associazioni comunque evidenziate è rappresentata dalla constatazione dell’effetto positivo della terapia antivirale. Infatti questa, se non tardiva, cioè se effettuata quando ancora non si sono determinate situazioni irreversibili, si è dimostrata in grado di portare al miglioramento consistente ed anche alla completa scomparsa della patologia. Inoltre le indagini su ampie popolazione e lunghi periodi di follow-up hanno dimostrato una significativa riduzione della mortalità per cause extraepatiche nella popolazione di pazienti che eradicavano il virus.
Tali patologie tendono a presentarsi nel corso dell’infezione, solitamente dopo una persistenza prolungata del virus, per lo più con manifestazioni classiche delle varie forme, tanto da risultate spesso misconosciute nel loro rapporto con l’infezione.
Un paziente al quale sono diagnosticate una o più di queste manifestazioni extraepatiche, può accedere ai nuovi farmaci per l’epatite C?
Per il momento, nonostante siano molte le condizioni morbose dimostrate associate all’infezione, è possibile l’accesso ai farmaci solo per poche categorie di pazienti indicate dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA).Effettivamente AIFA ha deciso che solo alcuni pazienti con manifestazioni extraepatiche possono accedere ai nuovi farmaci. Per la precisione il criterio n. 3 afferma: Epatite cronica con gravi manifestazioni extra-epatiche HCV-correlate (sindrome crioglobulinemica con danno d'organo, sindromi linfoproliferative a cellule B).
Le chiediamo: cosa si intende per “gravi manifestazioni extra-epatiche HCV-correlate” e cosa per “danno d’organo”?
La necessità di una definizione molto sintetica delle categorie ammesse al trattamento sicuramente può finire per creare dubbi interpretativi da parte dei medici prescrittori.
Personalmente ritengo che i responsabili della stesura del documento abbiano inteso, nel primo caso, la presenza di una crioglobulinemia mista (CM) non solo come dato di laboratorio (cioè come presenza di crioglobuline in circolo senza sintomi –fenomeno presente nel 50-60% dei pazienti HCV-positivi, se correttamente ricercate) (Figura 3), ma con franche, significative manifestazioni cliniche. Per quanto concerne poi le sindromi linfoproliferative a cellule B, ci si riferisce a neoplasie linfatiche a cellule B ed in particolare ai linfomi non-Hodgkin a cellule B.
Figura 3: Crioglobuline precipitate in tubi di laboratorio e provenienti da tre pazienti con livelli diversi nel sangue (diverso “criocrito”) |
Cos’è una sindrome crioglobulinemica e come si diagnostica?
Partendo dalla base, con il termine sindrome si intende un insieme di sintomi e segni clinici che costituiscono le manifestazioni di una data condizione patologica. Quindi si parla di sindrome quando la crioglobulinemia, che di per sé, letteralmente, significa presenza di crioglobuline nel sangue, cioè un dato di laboratorio, assume evidenza clinica.
Le crioglobuline sono complessi immuni che precipitano reversibilmente alle basse temperature (“crio”: freddo dal greco) e che sono costituiti da una immunoglobulina (anticorpo) unita al suo autoanticorpo, cioè un altro anticorpo rivolto verso le immunoglobuline dello stesso soggetto. Tale autoanticorpo è chiamato “Fattore Reumatoide” e può essere sia policlonale, caratterizzando la CM di tipo III, che monoclonale, caratterizzando la CM di tipo II. Si ritiene che la CM di tipo II sia un’ evoluzione di quella di tipo III e che sia quella più associata a forme più avanzate della CM, ad es. con danno renale e con evolutività verso un disordine linfoproliferativo maligno (linfoma). La stessa CM, in effetti, ha alla sua base un disordine linfoproliferativo a cellule B che è benigno, ma evolvente in una percentuale non trascurabile di casi verso un linfoma (condizione pre-linfomatosa).
Venendo più specificamente alla sindrome crioglobulinemica, questa può essere definita l’espressione clinica di una infiammazione dei piccoli/medi vasi (vasculite). La presenza e precipitazione delle crioglobuline può dar luogo infatti a questa condizione infiammatoria che a sua volta può essere all’origine di danno a vari organi (malattia sistemica, non localizzata ad un solo organo o apparato).
Si può andare così da lesioni cutanee come la porpora o le ulcere malleolari (v. figura 4), presente nell’80% circa dei pazienti) fino alla compromissione dei reni, per fortuna più rara, ma anche più preoccupante nella sua possibile evoluzione, se non curata.
Fanno parte delle manifestazioni cliniche della CM anche le artralgie migranti e le neuropatie sensitive e/o motorie. Queste ultime si manifestano solitamente con formicolii, sensazioni urenti o alterate sensazioni tattili (come di toccar bambagia), punture di spillo o difficoltà motorie. Fra le altre manifestazioni di tale condizione patologica si annoverano anche la cosiddetta sindrome sicca (sensazione di secchezza agli occhi e/o alla bocca), una particolare sensibilità al freddo delle estremità, soprattutto delle dita delle mani che diventano prima bianche poi cianotiche (fenomeno di Raynaud), dolori muscolari. Nel sangue, oltre alle crioglobuline, si trovano tipicamente un ridotto valore della componente C4 del complemento ed il fattore reumatoide.
L’aspecificità di molti sintomi tipici giustifica il frequente misconoscimento della forma, tanto che si suole dire che è una malattia che si vede solo se si guarda specificamente il paziente.
Figura 4: esempi di porpora crioglobulinemica.
La diagnosi di sindrome crioglobulinemica si effettua quindi valutando tramite domande appropriate (esame anamnestico) e valutazione clinica del paziente e degli esami di laboratorio la presenza o meno e l’entità dei sintomi correlati alla sindrome e degli specifici dati di laboratorio.Questi ultimi sono essenzialmente la presenza di crioglobuline e loro livello (criocrito), il Fattore Reumatoide e la riduzione dei livelli di C4.
E’ utile tenere presente che, anche in presenza di una chiara sindrome crioglobulinemica, si incontrano difficoltà nella determinazione di tali esami in modo corretto. Ad esempio, spesso le crioglobuline precipitano nelle provette prima di raggiungere il laboratorio fornendo risultati falsamente negativi, inoltre bisogna sempre fare attenzione a che le varie determinazioni di laboratorio, nel paziente HCV, siano effettuate a caldo. Ciò rende variabile la percentuale di falsi negativi. Si ritiene quindi che, al momento dell’inquadramento del paziente, l’ideale sia richiedere le tre determinazioni in modo di avere un’alta probabilità che nel paziente positivo almeno una risulti patologica. Sono invece sconsigliate, in quanto responsabili di un importante incremento dei falsi negativi, pratiche utilizzate per semplificare l’iter diagnostico quali richiedere solo uno dei tre marcatori (es. Fattore Reumatoide o complementemia) e procedere alla ricerca del criocrito e del corteo diagnostico completo solo in caso di positività. Per far capire l’importanza di un corretto prelievo e gestione dello stesso, in talune linee guida internazionali viene asserito che un risultato attendibile di criocrito possa essere ottenuto solo in caso di trasferimento immediato del vacutainer contenente il sangue prelevato in un bagnetto termostatico mantenuto a 37-40 gradi. Nella pratica clinica si consiglia caldamente di ripetere la determinazione risultata negativa in caso di sintomatologia sospetta.
Figura 5: l’infezione da HCV provoca un’attivazione importante e sostenuta dei linfociti B attraverso vari meccanismi. |
Esiste un protocollo standard per diagnosticare le manifestazioni extraepatiche, oppure ci si basa sull’esperienza del medico curante?
All’infezione da HCV vengono associate, come già accennato sopra, molteplici condizioni morbose già note ed inquadrate dal punto di vista del più corretto ed aggiornato approccio diagnostico, per cui basterà attenersi a tali criteri standardizzati. Esistono peraltro alcune differenze che riguardano soprattutto l’ambito reumatologico e che possono essere estremamente interessanti nella ricerca dei meccanismi all’origine delle stesse forme patologiche, ma ritengo meno dal punto di vista più pratico terapeutico. Mi spiego meglio, ci sono differenze (anche se non assolute per la presenza di forme miste) fra pazienti con una data manifestazione reumatologica, come la Sindrome Sicca idiopatica, e quella associata al virus C (es. presenza o meno di taluni autoanticorpi). Così pure per altre condizioni. Peraltro ritengo che, in presenza di una patologia basata su un disordine di tipo autoimmune e/o linfoproliferativo a cellule B, l’eradicazione di un virus che è stato dimostrato stimolare in modo intenso e prolungato tali cellule (Figura 5) debba essere ritenuta provvidenziale anche nel caso che il detto fenomeno non sia direttamente provocato dal virus. Questo è possibile asserirlo oggi, grazie alla disponibilità di farmaci antivirali che possono essere molto efficaci anche senza l’interferone. Rappresentava invece un problema importante quando si era costretti ad utilizzare l’interferone che di per sé favorisce i fenomeni autoimmuni.
Parliamo ancora di crioglobuline: come si diagnosticano? Esistono dei sintomi precisi del paziente per i quali è necessario fare esami di approfondimento?
Ho già accennato al fatto che la base della diagnosi è la determinazione di crioglobuline nel siero del paziente. Questo è sufficiente per dire che il paziente ha una “crioglobulinemia” come dato di laboratorio, ma non basta per affermare che il paziente ha una forma clinicamente rilevante, cioè una forma sintomatica o sindrome crioglobulinemica. Esistono vari criteri più o meno condivisi internazionalmente per una diagnosi reumatologica rigorosamente corretta di sindrome crioglobulinemica. Taluni di questi sono piuttosto complessi, e quindi difficili da imporre nella pratica clinica routinaria. Una più recente classificazione prevede la combinazione di dati anamnestici (cioè di dati riferiti dal paziente, quali la presenza dell’infezione e di episodi di porpora), clinici (quali la presenza –completa o parziale- di sintomi come una stanchezza profonda, porpora, artralgie, artrite, febbre/febbricola, fibromialgia, ulcere cutanee, fenomeno di Raynaud, neuropatia, vasculite necrotizzante) e laboratoristici (i già citati FR, ridotti livelli della componente C4 del complemento e/o presenza di componente monoclonale).
Figura 6: Fenomeno di Raynaud
La diagnosi “rigorosa” da un punto di vista reumatologico potrà essere effettuata quando almeno 2 categorie di criteri su tre saranno soddisfatte (es. dati anamnestici e sufficienti dati clinici ovvero sufficienti dati laboratoristici e clinici). Per una disanima più dettagliata rimando alle pubblicazioni relative, ed in particolare De Vita et al, 20112. Peraltro, ai fini pratici della valutazione della CM quale condizione patologica a sé, a prescindere dal danno epatico, può essere ritenuta valida l’identificazione di sintomi e segni laboratoristici indicativi dell’esistenza della vasculite (vedi sopra) e quindi richiedenti un intervento eradicante precoce, con un’attenzione particolare anche all’esistenza di un danno renale. Quest’ultimo condiziona pesantemente la storia naturale della malattia; più frequentemente manifestato da alterazioni (proteinuria, ematuria) dell’esame delle urine, può evolvere verso l’insufficienza renale e talora verso l’uremia terminale necessitante di dialisi e trapianto.
Una volta diagnosticata la crioglobulinemia, esiste una scala di gravità a cui fare riferimento?
Si possono genericamente distinguere due grosse categorie di severità includenti, da un lato, forme lievi (es. con solo porpora senza lesioni trofiche (Figura 7) e/o con artralgie e/o neuropatia solo sensitiva) e invece forme moderate/severe (es. con ulcere cutanee, impegno renale, neuropatia motoria, vasculite addominale)
Figura 7: Porpora senza e con lesioni trofiche/ulcere
Se un paziente guarisce dall’epatite C, la crioglobulinemia scompare del tutto, regredisce, oppure esiste una “soglia di non ritorno”?
Primo punto da tenere presente: il paziente con sindrome crioglobulinemica spesso arriva alla nostra osservazione dopo anni o decenni di una vasculite sistemica che può avere interessato in vario grado vari organi e può avere severità molto diversa, e che è solitamente gravata da sintomi perlomeno noiosi e talora invalidanti. Non è quindi troppo realistico pensare che si possano avere risultati sempre immediati ed eclatanti come per il livello delle transaminasi. I dati più affidabili sull’effetto dell’eradicazione si possono quindi ricavare da studi prevedenti un lungo follow-up dopo il trattamento. Questi, per il momento, sono disponibili solo per terapie basate sull’uso dell’Interferone. In un recente studio condotto presso il nostro Centro su un’ampia popolazione di pazienti con CM sottoposti a terapia antivirale con IFN pegilato e Ribavirina e seguiti per un periodo di tempo oscillante fra 30 e 120 mesi dopo il termine del trattamento, abbiamo potuto osservare la completa remissione della malattia nel 57% dei pazienti che eradicavano il virus. Nel restante 43% dei casi si aveva persistenza di sintomi e/o segni iniziali, anche se sempre con un considerevole e persistente miglioramento (Gragnani et al, 20153). Nel complesso, si notava che la persistenza dei sintomi correlava con la severità e anzianità della malattia alla base. Si ritiene in effetti che, in analogia a quanto già descritto per altre situazioni analoghe indotte da altri agenti infettivi (es. i disordini linfoproliferativi da Helicobacter pylori) il processo patogenetico proceda attraverso fasi di progressivo sganciamento dall’agente causale, tanto da indicare l’opportunità di un’eradicazione più precoce possibile
Per sindromi linfoproliferative a cellule B quali patologie esattamente si intendono? E ai fini della terapia, la sindrome linfoproliferativa deve essere in corso?
L’associazione fra HCV e patologie linfatiche (autoimmuni/B linfoproliferative), fu proposta molto precocemente dopo la scoperta del virus a seguito dell’individuazione (avvenuta presso il nostro centro in collaborazione con l’Institut Pasteur di Parigi) della prerogativa del virus di infettare anche cellule linfatiche.In effetti, dopo più di due decenni di studi a livello internazionale è ormai appurato che l’HCV è responsabile non solo di patologie benigne come la CM, ma anche di franchi linfomi a cellule B. Per gli addetti ai lavori si ricorda che i tipi istologici più specificamente associati all’infezione comprendono il linfoma linfoplasmacitico, il linfoma della zona marginale ed il linfoma diffuso a grandi cellule B. Non si tratta di associazioni esclusive, infatti sono stati descritti anche plasmocitomi completamente e persistentemente regrediti dopo eradicazione virale (come anche nella nostra esperienza) ed esistono descrizioni anche per altri tipiistologici. Per tali ragioni la categoria è stata lasciata generica. Questa apertura appare anche preziosa in considerazione del fatto che, rappresentando sicuramente l’infezione HCVuno stimolo linfomagenetico (che favorisce cioè l’evoluzione “del” linfoma o “verso il” linfoma) la sua eliminazione risulta provvidenziale in ogni caso ed in qualsiasi fase (in corso o in remissione dopo chemioterapia) il tumore stesso si trovi.
Per quella che è la sua esperienza, l’attuale criterio n. 3 di AIFA è coerente con la realtà o andrebbe rivisto? E cosa esattamente andrebbe rivisto e perché?
La prima modifica che mi sentirei di proporre è l’eliminazione di termini che si riferiscono al danno epatico in questo criterio che deve comprendere, appunto, solo il danno extraepatico. Infatti è stato ormai molto chiaramente dimostrato che l’infezione da HCV può dar luogo a danno epatico e/o extraepatico con meccanismi e per vie indipendenti. La definizione di “Epatite cronica con gravi manifestazioni extra-epatiche HCV-correlate” potrebbe portare a considerare erroneamente tali manifestazioni extraepatiche come complicanze del danno epatico e da esso dipendenti. Questo può essere rischioso, ad esempio, per il fatto che, per molto tempo, colleghi di altre specialità hanno ritenuto di dover trattare tali forme con terapia antivirale solo in presenza di danno epatico significativo. Sostituirei quindi “Epatite cronica” con “Infezione cronica”. Ancora non esistono dimostrazioni chiare di un comportamento diverso di tali pazienti riguardo alla responsività ai DAA di nuova generazione, per cui saranno trattati seguendo gli stessi criteri delle altre categorie di pazienti (es. pazienti con fibrosi epatica da F0 ad F3 come i pazienti con danno solo epatico di stadio F3, etc.) (Gragnani et al, 20164)
L’altra, ben più importante modifica che proporrei sarebbe l’estensione delle manifestazioni extraepatiche ammesse al trattamento. Prima di tutto semplificherei la definizione della crioglobulinemia mista da “sindrome crioglobulinemica con danno d'organo” che solitamente genera perplessità ed incertezze con “crioglobulinemia mista sintomatica”. Infatti una CM con sintomi è una forma già evoluta in una vasculite sistemica, foriera, quando non arrestata precocemente, di arrecare col tempo danno a vari organi ed apparati, con risultati talora invalidanti, necessità indefinita di cure e provvedimenti sempre più pesanti e costosi, nonché di evoluzione verso neoplasie linfatiche. Come già sottolineato, l’evoluzione della patologia avviene per tappe successive che segnano un progressivo sganciamento dall’agente causale. In parole povere, ci si attende che l’eradicazione virale possa essere tanto più efficace, con anche completa guarigione della malattia, quanto più precocemente effettuata. Inoltre, è prevedibile che sia fondamentale arrivare ad eliminare il virus prima che si siano innescati meccanismi oncogenetici svincolati dalla sua persistenza. In breve, il trattamento precoce avrebbe valenza sia terapeutica che preventiva.
Inoltre, se dipendesse da me, senz’altro andrei anche oltre i soli disordini linfoproliferativi. In teoria tutte le manifestazioni extraepatiche andrebbero considerate una ragione per raccomandare una priorità nel trattamento in quanto queste che, come ho già accennato, devono essere considerata a sé come meccanismi e storia naturale, vengono ad aggiungersi al danno epatico moltiplicando la potenzialità lesiva dell’infezione. In una prima fase di ampliamento dei criteri per l’ammissione al trattamento con DAA inserirei senz’altro anche le malattie renali non crioglobulinemiche, il diabete mellito, le malattie cardiovascolari su base arteriosclerotica, la porfiria cutanea tarda, le forme depressive accompagnate da astenia significativa e la poliartrite cronica HCV-correlata.
Bibliografia essenziale
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- Gragnani L, Fognani E, Piluso A, Boldrini B, Urraro T, Fabbrizzi A, Stasi C, Ranieri J, Monti M, Arena U, Iannacone C, Laffi G, Zignego AL; MaSVE Study Group.
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- Curr Drug Targets. 2016
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